Cult of the Lamb – La recensione di un miscredente
Io sono il tuo sogno eretico
Se dovessi descrivere qual è stato il mio approccio a Cult of the Lamb probabilmente propenderei per l’utilizzo del termine: silente. Al netto della sua “pucciosità”, ammirata sin dal primo trailer, non è che me ne fregasse poi molto dell’opera in questione. Eppure, dopo che Manuel ha iniziato a scassarci la guallera su quali fossero le sua bontà, mi sono incuriosito non poco ed ho ceduto.
Ed eccomi quindi qui, a scrivere per l’ennesima volta una recensione su di un qualcosa che inizialmente non mi ha afferrato per la gola, ma che si è fatta gustare in maniera lenta, sino ad insinuarsi sulla mia tavola già bella che apparecchiata di nuove attese.
Mannaggia alla puttana, però; il tempo è sempre quello che è in ‘sto periodo e gli slot disponibili sono stati assegnati ad altri eletti, che mo mi tocca pure bestemmiare forte. Oh, ma aspettate: ‘sto gioco cerca degli eretici, bestemmiatori seriali come il sottoscritto, o no? A posto, allora. Cult of the Lamb fa per me non solo oggi, ma per tutti i restanti giorni della mia vita.
Non che vi sia nulla di male nell’avere fede, nel seguire una religione piuttosto che un’altra, eh… Semplicemente è che io proprio non ce la faccio a farmi abbindolare da parole proferite da chi poi razzola a cazzo; ma comunque…
Nel gioco, l’agnello (timorato di Dio?) di cui prenderemo il comando dopo una breve cutscene dovrà creare la sua setta in una terra di falsi profeti, avventurandosi in regioni misteriose per costruire una comunità di adoratori del bosco, diffondere il proprio Verbo e diventare l’unica vera fede. Tutto ciò avverrà a seguito di alcuni eventi narrativi che non sto ad approfondire, poiché preferisco lasciare a voi il gusto di farlo; abbandonati ad un gameplay loop che via via diverrà sempre più consistente fino a penetrarvi nella pelle.
Ed è cercando di capire come che – inconsciamente – ne avrete già assorbito ogni essenza, forti di essere i veri padroni del vostro Culto e volti a predicarne le più assurde dottrine. Parliamo infatti di un gioco a metà tra un dungeon crawler e un sim-life, dove accessibilità e immediatezza rappresentano le due parole chiave.
Tutta la parte gestionale di Cult of the Lamb ricorda sì un qualsivoglia Animal Crossing (qui la nostra recensione), ma a più riprese mi è sembrato di ritrovarmi di fronte ad un Theme Hospital, Theme Park World e titoli – insomma – di questo stampo. Sarà forse stato l’incessante vomito lasciato in giro dai miei seguaci (e le continue dipartite di un personaggio tanto voluto quanto sacrificato come Rodo [non createlo, muore in qualsiasi Culto – NdR Isma]) ad avermi fatto assaporare queste sensazioni? Non lo so, sinceramente; so solo che sono tornato a quei tempi lì, in cui da ragazzino scoprivo per la prima volta come prendersi cura di un qualcosa di proprio (minchia, senza volerlo mi è venuto improvvisamente in mente pure il Tamagotchi).
Vabbè.
Ad ogni modo ciò che ci verrà chiesto di fare nella terra candida dove sorgerà il nostro villaggio sarà creare il nostro Credo, la nostra Fede (che potremo rinominare come più ci aggrada). Lo si farà giorno per giorno, attraverso lo scorrere delle lancette e l’utilizzo di materiali come la legna, l’oro o le pietre, raccolti mano a mano da noi o dai nostri seguaci [tranne Rodo – NdR Isma], e che saranno necessari a dare fondamenta al tutto. Dalla statua posta al centro di esso ove pregare, sino alla chiesa e alle varie mansioni da assegnare; tutto sarà fondamentale per accumulare fedeltà e far crescere così la nostra dottrina, non esitando neppure un istante e cercando di utilizzare il pugno duro laddove richiesto.
Sacrifici, matrimoni (mi sono involontariamente sposato con Ismaele, ma che gaz… [ma che tesoro – NdR Isma), sermoni, rituali: tutto ha il suo peso specifico nel raggiungere il suddetto scopo comune; e tra rami delle abilità da apprendere, dottrine da predicare, compiti da svolgere e far svolgere, non ci metterete poi molto a comprendere quel complesso (all’apparenza) meccanismo che muoverà i fili del gioco. Dinamiche che ben si sposano alla filosofia partorita da Massive Monster, ma che alle volte potrebbero creare nel videogiocatore una sorta di stress emotivo, visto lo scorrere repentino (anche a modalità normale) del tempo. Centellinarlo in maniera adeguata, per cercare di dare il giusto spazio a tutte le attività presenti, insomma, non sarà cosa semplice; specie qualora decidessimo di addentrarci nei boschi.
E allora ecco che girarli in lungo e in largo vi farà prendere sì confidenza con il sistema di combattimento e con le fasi esplorative, ma vi porterà a stare lontani da casa per un lasso di tempo spesso indefinito, attraverso dungeon procedurali composti a loro volta da una mappa a ragnatela e dove sarà possibile pianificare al meglio il proprio cammino. All’interno di questi si potranno uccidere infatti numerosi nemici comuni, classici mid boss e il consueto boss finale, con l’intento di raccogliere quanti più materiali possibili (che torneranno utili nella costruzione del vostro villaggio), sino ad arrivare al reclutamento di nuovi seguaci (di cui si potranno sbloccare tante forme animali di colorazioni diverse nonché modificarne i nomi).
Stare lontani da casa per troppo tempo potrebbe quindi regalarvi, al vostro ritorno, spiacevoli sorprese: tra abitanti deceduti di vecchiaia o per malattie causate dal cibo avariato (e dallo sporco), infedeli o carenza di risorse, avrete di che rimboccarvi le maniche per rimettere le cose sulla retta via.
Pertanto, buona fortuna; soprattutto perché in quelle occasioni in cui gli elementi a schermo si sovrapporranno non sarà semplice e repentino interagire con l’elemento giusto, creando spesso confusione e facendovi perdere ulteriore tempo. Un qualcosa, questo, che volente o nolente, intacca eccome l’immediatezza che spesso il gameplay è capace di intavolare.
Ma ritornando alla parte action del titolo e alla sua proceduralità non ho potuto non notare come, arrivati a un certo punto, il gioco blocchi la sua crescita; parlo più che altro di quella profondità data dal combat system. Perché se è vero che grazie alla varietà dei nemici e all’immediatezza dell’azione Cult of the Lamb regali picchi di frenesia impareggiabili, è pur vero che un attacco leggero, uno dalla distanza e una capriola sono “solo” tre azioni eseguibili e potrebbero, sulla lunga distanza, farvi accusare non poca monotonia.
Per carità, anche le armi di diversa tipologia generate in maniera casuale all’inizio di ogni dungeon (in grado di infliggere anche alcuni malus); i commercianti posti al proprio interno dove sostituirle e i negozi in cui acquistare potenziamenti temporanei (attraverso un sistema di carte) garantiscono una certa varietà all’azione. Però ecco: permane comunque la sensazione descritta poc’anzi. Qualcosina di più in tal senso andava fatta, almeno secondo quello che è il mio punto di vista.
Comunque sia, dopo aver ucciso i boss principali presenti in ognuno di questi, attraverso boss fight indubbiamente ispirate, le scampagnate al proprio interno potrebbero allungarsi non di poco, salvo decidere, una volta arrivati al teletrasporto (posti più o meno a metà strada), di lasciar perdere tutto e far ritorno al proprio regno. Chiaramente più ci si addentra nei boschi, più si ottengono risorse utili allo sviluppo del proprio Culto [tranne per Rodo; nessuna risorsa lo farà scampare dall’inevitabile dipartita – NdR Isma]; tra oggetti speciali con cui abbellire il villaggio e numerose altre cose che lasciamo scoprire a voi e voi soltanto.
Sotto questo punto di vista c’è veramente tanta varietà, bisogna ammetterlo.
Mano a mano che le nubi sulla narrativa tenderanno a schiarirsi e facendo la conoscenza di nuovi comprimari con cui interagire, si apriranno poi altre porzioni di mappa dove poter andare a pesca, fare shopping per i vari negozi, reclutare nuovi seguaci e via discorrendo. C’è, in tal senso, una graduale crescita che come dicevo non ho invece ritrovato nella parte più action di Cult of the Lamb. Un contraltare che prova a bilanciare un’esperienza che punta ad essere un mix – riuscito – di varie meccaniche, insomma.
Un mix che ritroviamo anche nello splendido stile audiovisivo non esente – ahimè – da bug che ne hanno minato anche il cammino di alcuni (tipo il nostro Fabione; almeno su PlayStation 5). So anche di alcune evidenti problematiche inerenti alla versione Nintendo Switch, come fenomeni di stuttering e cali di frame improvvisi; ma preferisco non addentrarmi oltre poiché il titolo l’ho giocato esclusivamente su console Sony attraverso un codice review, gentilmente offertoci dall’editore.
Documentarsi però è lecito e, a seguito di quanto appena accennato, vi invito a prenderne atto (il nostro Manuel ci ricorda infatti che proprio tra ieri ed oggi è stata rilasciata una patch per Nintendo Switch e PlayStation 4).
Perché il comparto artistico è comunque piacevole, forte dei suoi personaggi accattivanti e pucciosi con cui non faticherete ad empatizzare (specie se darete loro il nome di qualche vostro amico) e perché, al netto della monotonia visiva dei dungeon, tutto è fortemente colorato, ispirato e violento; regalando al sangue che scorre a fiumi, nel nome dei sacrifici offerti al culto, una motivazione molto vicina a quanto visto nella serie: Happy Tree Friends.
Così com’è gradevole anche il comparto sonoro che non regala chissà che picchi, ma che attraverso i suoi suoni stile alert, l’accompagnamento musicale dei dungeon e i versi continui di ogni mostricciattolo, saprà ugualmente entrarvi in testa.
Ci sarebbero davvero innumerevoli cose da dire in merito a Cult of the Lamb, ma i dettami di quest’opera sono più semplici da apprendere che da descrivere; e allora, il consiglio ultimo che posso darvi è semplicemente quello di capire e carpire se, dalle mie parole, essere dei miscredenti vi si addica oppure no.
Anche senza comprendere appieno l’etimologia di alcuni termini, peraltro non localizzati nel nostro idioma.
CONCLUSIONI
Overall
-
GRAFICA - 8/10
8/10
-
GAMEPLAY - 7.5/10
7.5/10
-
AUDIO - 7/10
7/10
-
LONGEVITÀ - 8.5/10
8.5/10
IN SINTESI
Cult of the Lamb è senza dubbio alcuno un gioco ipnotico, figlio di un mix di generi che nasce con l’intento di catturarti attraverso la sua immediatezza e semplicità. Ad un aspetto gestionale decisamente più stratificato, fa da contraltare una parte action e dedita all’esplorazione che lo è un po’ meno e che potrebbe, alla lunga, stancare i videogiocatori. Dalle quindici alle venti ore che servono per portare a termine la trama, o dalle successive che potrebbero pure tendere all’infinito, l’esperienza dipenderà molto da quanto presto o meno vi stancherete. Alcuni limiti produttivi, piccole ingenuità e altre situazioni che ho trovato decisamente troppo accelerate, lo pongono un gradino sotto quello che, in gergo, verrebbe definito come un gioco imprescindibile. La cosa bella del titolo targato Massive Monster è che, a prescindere dal vostro interesse (e come successo al sottoscritto una volta messoci mano sopra), potreste facilmente restarci sotto per un po’. Provare per credere.
“Non vuoi niente. Non credi in niente. Il futuro è il tempo che ti rimane prima di finire un videogioco. Non credi nella vita dopo la morte e hai poca fiducia nella vita in generale. L’unica cosa che sai per certo è che non vuoi le stesse cose dei tuoi genitori.”